Nasce – come racconta la stessa Signora della moda, colletto della camicia distrattamente (?) male allacciato, sandali d’argento sulle calze e antichi diamanti al collo, nell’incontro con la stampa che precede la sfilata – da una riflessione su quelle che sono le discussioni in corso (alcune di esse da tempo, ormai) nel mondo della moda, la collezione Prada per l’uomo Autunno/inverno 2020-21.
Classico vs streetwear, ridefinizione del concetto e dell’estetica della mascolinità e, quindi, forse inevitabilmente, della femminilità («A mio modo, ho sempre fatto empowerment femminile, io, e ho sempre cercato di rendere gli uomini più gentili»), il gusto dei giovani («si nominano solo quando bisogna vendergli qualcosa, se no non li considera nessuno», afferma onesta e arguta Miuccia Prada), il sempre più pressante impegno sulla sostenibilità («all inizio non mi piaceva questa ipocrisia sul tema. Ma dalla teoria si è passati alla pratica: più del 90% dei materiali usati in questa sfilata è “corretto”. Mi sento positiva, in generale: il cambiamento sta succedendo»). E, ancora e soprattutto, il dibattito dei dibattiti: il mondo sta andando meglio o peggio? Si annunciano crisi terrificanti, e poi tutto si acquieta sempre. Rispetto a 100 anni fa la povertà si è ridotta considerevolmente… e, quindi, riusciamo a capire davvero dove stia andando questo pianeta?
TUTTE LE STAR ALLE SFILATE DI MILANO MODA UOMO AI 2020/21:
Di fronte a tutti questi interrogativi in progress, è come se Prada decidesse di aggrapparsi, e quasi rifugiarsi, a quanto di sicuro e di rassicurante ancora c’è. Chiamiamolo il «classico», secondo le indicazioni della stessa creativa. Ovvero, ciò che ha sempre e comunque un senso, che dura nel tempo, e che continua a piacere.
«La definirei una sfilata moderna, o se vogliamo modernista, che tiene ben presente e ben ferma l’idea dell’eleganza», taglia corto, ma con occhio oggettivo e lucido, l’autrice di questa collezione che riflette con grande intensità il dna più autentico del marchio.
Il lavoro più impegnativo è stato fatto sui tessuti – «quelli sostenibili costano un po’ di più, ma è un percorso che si può intraprendere» – sui tagli, e soprattutto sulle forme: quasi piatte, grafiche, così esagerate da essere quasi surreali, così «eccessive da disturbare, quasi, da sembrare finte, non reali». Ma anche sullo styling, con giochi si sovrapposizioni e silhouette che eleggono a sovrani indiscussi della collezione i capispalla, e sulla palette cromatica, ricercata e raffinatissima.
Come da ormai consueta sintonia, il layout dello spazio riflette e amplifica il messaggio estetico degli abiti in passerella: una (anzi due) grande piazza metafisica, l’idea stessa di una corte colorata, con al centro una statua equestre totalmente non eroica.
Ma a illuminare ulteriormente il tutto di una luce ancora più abbacinante e vera è la chiosa con la quale Miuccia Prada saluta la sua privilegiata audience: «I vestiti sono l’ultimo dei problemi. L’abbigliamento conta, ma fino a un certo punto. Conta la testa. Non vorrei parlare male della moda, però…». Eh no, con una collezione desiderabile come quella che abbiamo applaudito in passerella, tocca proprio aspettare un’altra occasione per parlare male della moda.
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