Ammesso (e, in questo momento storico più che mai, concesso) che un tappeto rosso importante e ambito come quello degli Oscar – e quest’anno importante sul serio, considerata la forte carica simbolica a esso associato, in quanto primo, vero, grande evento post (o quasi) pandemia: ripartenza, ottimismo, sguardo rigonfio di speranza al futuro, dell’industria cinematografica, dello showbusiness ma anche della società in genere, che intravvede al di là delle tenebre del Covid-19 una flebile luce di normalità possibile – possa anche essere specchio, a volte fedele, a volte deformante ma pur sempre specchio, di quel che nel mondo sta accadendo (o è appena già accaduto), ecco che dal red carpet srotolato ieri sera per la 93esima edizione degli Academy Awards, sul quale hanno sfilato attori, attrici, registe, registi e artisti in genere della settima arte, un’evidenza ci pare di averla colta.
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Ovvero, che stiamo vivendo – il plurale è d’incitamento, perché al vero motore, che ormai gira a pieno regime, la benzina arriva in buona parte da Hollywood, che su questa sponda dell’Oceano forse molta strada è ancora da fare – un momento di transizione. O di cambiamento vero e proprio. Ma forse la parola vera da scrivere è rivoluzione. Siamo in bilico sul crinale del passaggio, un piede di qua e uno di là. Anzi, un tacco di là e una sneaker di qua.
Da una parte, a calcare il red carpet con sorrisi – o bronci d’ordinanza – dive in formato Vecchia Hollywood, splendidamente impacchettate in abiti sontuosi, bold, scenografici. Abiti che urlano ai quattro venti – vuoi per i colori ultrapop saturi e vibranti, vuoi per volumi ingombranti in puro mood Eighties, dalle gonne dalla circonferenza esasperata agli strascichi, fino alle spalle ipertrofiche o spaziali, alla Joan Collins giusto per buttare lì un riferimento che renda l’idea – «Eccoci finalmente, ci siamo, ci stavate aspettando e siamo tornate, siamo qui! Ci vedete? Ma come potete non vederci!».
Tanta era la voglia di ricominciare il gioco dell’indossa&sfila, tanta era la voglia di abbandonare gli scatti casalinghi – anche se in villone vista a 360 gradi su Los Angeles – per tornare allo show off in presenza, che l’imperativo diffuso è parso un po’ essere: «Ammirateci, non potete non farlo!». Glamour allo stato puro, ma puro inteso come quintessenza, come distillato: al bando fronzoli, perline, ricami, strass (ok, per Glenn Close orecchie da mercante sul concetto), frange e via gingillando, a rimanere sono stati abiti vistosi, eloquenti come punti esclamativi, eye-catching ma a loro modo (perché tutto è relativo) essenziali.
Dall’altra parte (o, in fondo, dalla stessa) l’immensa Frances McDormand da record, alla sua terza statuetta: che fosse un’antidiva – l’antidiva per antonomasia della Hollywood contemporanea, anzi – lo si era già abbondantemente capito, e ben prima che indossasse un paio di sandali Birkenstock gialli lime su quello stesso palco, nel 2019, in qualità di premiatrice sul palco.
Un abito nero al massimo grado di semplicità – firmato Valentino, ma in questo caso l’aggettivo «semplice» ha davvero senso – ma soprattutto l’assenza assoluta di una benché minima apparenza di trucco e parrucco. Acqua e sapone per davvero il volto incorniciato da capelli scompigliati senza finta nonchalance, a ricordarci che c’è anche chi sa davvero, ma davvero, affidarsi in toto alla propria personalità per risultare, in ogni caso, bellissima.
Discorso analogo per la vera trionfatrice della serata, migliore regista dell’anno, Chloé Zhao, che all’abito più che understate firmato Hermès abbina trecce effetto hand made e un paio di sneaker bianche. Contravvenendo a quella che è stata una precisa richiesta dell’Academy sul tema spinoso del dress code della serata, affidata a una lettera inviata a tutti gli invitati: niente abbigliamento casual o sportivo, please! Ma vogliamo pensare che il motivo profondo della scelta, anche discussa, di Zhao sia: perché le andava e le piaceva così (come al musicista Questlove andavano e piacevano i Crocs dorati…).
Che poi, quello della libertà, è un altro leitmotiv ricorrente di questo tappeto rosso. Forse il più significativo.
Liberi i riccioli vivaci e indomiti di Viola Davis e Andra Day, entrambe candidate come migliori attrici protagoniste (e va be’, andrà meglio la prossima volta); libera ancora Day di scegliersi un abito gold con mega spacco, di quella categoria proudly sexy che eravamo più abituati ad ammirare su red carpet più friccicarelli come quello dei Grammy o degli MTV Awards, e che oggi non ci fanno più sobbalzare nemmeno qui (ma le abitudini si cambiano, sono fatte apposta per essere cambiate sostiene qualcuno).
Liberi, finalmente, gli uomini di sgommare fuori dai sentieri tracciati da decenni di convenzioni, e di vestirsi – che so – di fucsia da capo a piedi.
Ma libera anche una bionda produttrice di indossare lo stesso completo, o quasi. Giusto un po’ annacquato. Letteralmente.
Il che non significa, sia messo agli atti, dare la caccia agli smoking – perché Brad Pitt, per dirne uno, in tuxedo ha ancora molto da dire, e in molti sono ancora ben disposti ad ascoltare – bensì poter scegliere cosa indossare.
Cosa, come, quando e dove si voglia, senza neppure dover spiegare perché. Foss’anche agli Oscar, pensa un po’.
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